Certo non è stato semplice arrivare a realizzare questo viaggio. C’è voluto tempo, impegno, sacrificio, sono dovute cambiare le abitudini, ma questo ha reso ancor più appassionate e entusiasmante questa avventura e l’attesa del suo inizio.
La preparazione è stata minuziosa ed è spaziata dalla preparazione della moto, alle tappe giornaliere, ai punti di rifornimenti di benzina, fino alla preparazione fisica. Ho imparato che le cose lasciate al caso, causano perdite di tempo e il tempo è sempre poco.
La moto è partita 50 giorni prima di noi, condividendo il container con altri amici conosciuti sui social. Il porto di destinazione è stato Valparaíso in Cile, dove lo sdoganamento è avvento in tempi rapidi.
Imprevisti e deserti cileni
Il viaggio comincia con una falsa partenza, perché dopo poco più di 250 km siamo costretti a rientrare a Viña del Mar (Valparaíso) per la rottura della puleggia alternatore della moto, evento più unico che raro. Ci sono voluti 4 giorni per ripararla: abbiamo fatto ricerche da Viña del Mar a Santiago del Cile, dove disperati abbiamo cercato la puleggia nel quartiere colombiano e in quello cinese (esperienza che ci è stata caldamente sconsigliata), per poi trovare un ricambio compatibile in un centro autorizzato BOSCH.
Devo ringraziare molte persone che ci sono state vicino e aiutato, sia in Cile che dall’Italia, anche perché dopo svariate ricerche sembrava che l’unica soluzione fosse attendere l’arrivo del pezzo dall’Europa. Il viaggio a volte ha degli imprevisti, ma sta a noi coglierli senza farci travolgere, affrontandoli con il giusto temperamento, costruendo alternative in base all’evolvere dei fatti. La regola numero uno rimane l’ottimismo, la costanza e la caparbietà nel volercela fare, avendo sempre a disposizione un’alternativa.
La lunga permanenza a Valparaíso ci dà la possibilità di visitare gli innumerevoli graffiti presenti lungo le strette vie che corrono sulla collina, i mercati colorati con verdure fresche di stagione e spezie profumate, i mercati di pesce fresco in cui è possibile mangiarlo cucinato lungo la strada. I leoni marini e i pellicani attirano l’attenzione dei turisti. Poi c’è Viña del Mar, con la sua lunga costa travolta dalle onde potenti dell’oceano, dove è evidente la radicata vocazione turistica, accentuata dagli imponenti hotel e dagli innumerevoli ristorantini, con i bambini che giocano con gli aquiloni e i giovani giocolieri che intrattengono i conducenti delle auto ferme al semaforo.
Passeggiando lungo la costa veniamo attratti da un gruppo di foche che giocano in acqua, ricorrendosi e saltando tra le onde di una costa protetta dagli scogli, fino a giungere a Don Dure; qui l’imponente duna alta più di 80 metri sembra travolgere le ricche residenze di villeggiatura che pullulano la costa. Non essendo stagione, la costa nell’ora di pranzo è popolata da numerosi lavoratori in pausa che sono impegnanti nelle attività di manutenzione delle residenze. Chiacchierando con loro emerge che in questi cantieri lavorano intere famiglie, per lo più di immigrati.
Ad una settimana dal nostro arrivo in Cile, la moto è riparata e siamo pronti a partire. Purtroppo i giorni persi ci costringono a modificare il nostro itinerario, rendendo le tappe ancora più serrate di quanto previsto. Impieghiamo 2 giorni a percorrere i circa 1700 km necessari a raggiungere il deserto di Atacama. Lungo la strada che costeggia l’oceano, si nota il lento cambiare del paesaggio, che via via si trasforma in una lunga distesa di terriccio e sabbia, compaiono i primi cactus. Dirigendoci verso Nord la presenza di auto si fa sempre più rarefatta. Ci faranno compagnia solo i grandi camion, che sul posteriore riportano l’indicazione della loro lunghezza, avvertendo così chi volesse superarli.
Leggo l’indicazione di un paesino che mi incuriosisce e decido di visitarlo, svoltando a destra e lasciando così la lunga strada asfaltata. Dopo pochi km la strada diventa sterrata, attorno a noi solo pochi arbusti e capre che pascolano liberamente. Raggiungendo il gruppo di case sembra di trovarsi in uno di quei vecchi film del Far West: la strada polverosa, i cespugli che rotolano spinti dal vento e le galline che beccano a terra rendono tutto molto “Sergio Leone”. Le case sembrano tutte chiuse, ma a fianco alcune di esse vediamo lunghi filari di panni stesi e vecchi pick-up Chevrolet. Al centro del paese c’è un negozietto che vende alimentari, accessori di prima necessità e gasolina pescata con una pompa a mano da un vecchio bidone arrugginito. Ci fermiamo per riposare e per bere una bevanda, ma nei 10 minuti in cui rimarremo lì non si farà vivo nessuno.
Riprendiamo la strada principale e alla prima stazione di rifornimento ci fermiamo per riempire il serbatoio. Qui conosciamo una coppia di giovani motociclisti cileni e la loro simpatica coppia di bassotti. Il bassotto maschio è una peste e corre libero sul piazzale della stazione di servizio, incurante dei richiami del padrone e della presenza dei lunghi tir ai quali abbaia. Percorriamo un tratto di strada assieme, affiancandoci e scattando seldie più volte nei successivi 200 km.
Ci fermiamo per la notte a Copiapó dove acquistiamo una tessera telefonica cilena e passeggiamo tra le bancarelle che espongono prodotti tipici. Qui conosciamo una coppia che possiede una BMW R1200GS ADV del 2006 con le stesse colorazioni della nostra prima BMW. Ci invitano ad una festa tra motocilisti che si svolge fuori paese, ma purtroppo non possiamo accettare, anche il giorno successivo dovremo alzarci presto: ci aspettano numerosi chilometri.
Riprendiamo il viaggio dopo colazione, fa freddo e il cruscotto della moto segna -1°C; raggiungerà gli 8°C solo nel pomeriggio. Abbiamo sempre subìto il grande fascino del deserto ed ora ci troviamo al centro dell’Atacama. Spesso ci fermeremo ad osservare queste lunghe distese di sabbia, rotte solo in lontananza da colline di roccia rossastra. Incrociamo i primi rapaci che volteggiano leggeri sopra di noi e che con la loro apertura alare tagliano i freddi raggi di sole che accompagnano questa giornata.
Nel primo pomeriggio raggiungiamo la Mano del Desierto. L’abbiamo a lungo desiderata e, impazienti di raggiungerla, scrutiamo continuamente l’orizzonte a destra e sinistra ansiosi di veder comparire la meta. La presenza di numerosi turisti sulla nostra destra indica l’arrivo alla tanto attesa destinazione. Raggiunta la statua restriamo fermi ad osservarla per diversi minuti, rendendoci conto che è esattamente come ce l’aspettavamo. I turisti venuti fin qui in bus o auto ci guardano incuriositi, stringendosi nelle loro giacche a vento, chiedendosi se non avessimo freddo. Per fortuna dopo la foto di rito tutti risalgono in fretta sui mezzi, lasciandoci finalmente l’onore di poter scattare qualche foto davanti alle 5 dita più ammirate e fotografate al mondo. Dopo le foto, ci siamo concessi una passeggiata nei dintorni, riscaldandoci e lasciando la moto a disposizione degli obiettivi dei turisti.
Ci fermiamo ad osservare la Valle di Arcoiris da una collina, popolata da numerosi turisti accompagnati dai tour organizzati, che osservano il tramonto del sole consumando un aperitivo accompagnato da della frutta. Superiamo il tropico del Capricorno e nel tardo pomeriggio raggiungiamo San Pedro di Atacama. Il tramonto rende rossa tutta la valle. Scatteremo delle foto meravigliose.
Arriviamo a San Pedro di Atacama con il buio, sorpresi dal fatto che fuori città la strada, sebbene non sia illuminata, è asfaltata, mentre in città, la polvere sollevata dai mezzi che ci precedono e che corrono nelle strette vie, offusca le poche luci delle insegne e delle case. Il tempo di una veloce doccia e ci ritroviamo a cenare in compagnia dei nostri compagni di container che trascorrono a San Pedro di Atacama un’ultima notte, dandoci preziose informazioni sulle mete da visitare in questa zona.
Una delle informazioni che sperimentiamo da subito è la scarsa qualità della benzina venduta in questo luogo, difatti il giorno seguente veniamo svegliati dai continui tentativi di accendere il vecchio pick-up del proprietario del B&B che ci sta ospitando. La nostra moto si accenderà solo al terzo tentativo, aiutata da un colpettino di acceleratore.
Oggi visitiamo la Valle della Luna, che si trova molto vicina alla città di San Pedro. Sembra di essere su un altro pianeta. Le formazioni rocciose scavate dal vento, la sabbia rossastra, il vento che sposta la sabbia facendola volteggiare in aria disegnando forme curiose. Non abbiamo mai visto niente del genere.
Saliamo sulla grande duna, soffermandoci ad osservare lo spettacolo del sorgere del sole che appare tra le montagne in lontananza e avvolge la valle di una luce forte e calda, che scalda la sabbia e i nostri corpi rigidi.
La strada è percorsa da numerosi ciclisti, costretti a fersmarsi sulle lunghe salite piene di sabbia che impediscono di proseguire in sella. Solo al ritorno comprenderò di aver fatto bene ad arrivare di prima mattina: il deserto viene assaltato da numerosi pulmini Chevrolet, che popolano e rendono chiassoso e disordinato questo luogo unico. Guardiani in pick-up sorvegliano costantemente i turisti seguendoli nei loro spostamenti.
Uscendo dalla Valle della Luna incrociamo una famiglia di tagua (una specie di cinghiale) che corre spaventata lunga la strada, per poi scendere in una cunetta e scomparire tra gli erbusti.
Nel pomeriggio andiamo a visitare la Laguna Cejar, al centro delle saline di Atacama, dove veniamo catturati dall’azzurro intenso di quest’oasi d’acqua avvolta dal bianco accecante del sale. L’azzurro viene interrotto solo dal rosa dei fenicotteri, che piano piano si muovono sullo sfondo delle enormi montagne andine, regalandoci un memorabile sogno ad occhi aperti.
Un forte botto accompagnato da raschiamento che proviene dalla moto ci costringe a fermarci lungo la lunga pista sabbiosa che conduce alla laguna. Subito penso ad una foratura, ma appena fermo mi accorgo che si è rotto il parafango posteriore (ormai sto seminando parafanghi dappertutto: Tunisia, Senegal, Turchia e ora Cile). Proseguire non è possibile perché il parafango è andato a finire sopra la ruota spezzando due viti e storcendo l’unica vite che lo trattiene. Non è semplice rimuovere questa vite piegata in questa pista polverosa. Questo è un altro insegnamento della strada: se percorri svariati km su piste sassose, il parafango va rimosso. Tolto il parafango lo conserveremo in valigia, per poi sbarazzarcene al primo bidone dell’immondizia che incontreremo al ritorno.
All’imbrunire la temperatura precipita così rapidamente che sceglieremo di trascorrere la serata nella stanza del B&B. Nel frattempo io e Alice valutiamo varie ipotesi sugli itinerari dell’indomani, perché l’imprevisto meccanico iniziale ci ha rubato molti giorni. La razionalità ci consiglierebbe di non proseguire per il Perù, ma alla fine ce ne freghiamo e decidiamo di riprendere il viaggio proseguendo verso Arica, città portuale di confine caratterizzata dalla grande collina sulla quale sventola l’imponente bandiera cilena, per poi superare velocemente il confine peruviano e attraversare l’omonimo deserto fino a raggiungere Puno.
Sulle sponde peruviane del Lago Titicaca
In Perù veniamo attratti dall’intenso odore di zolfo e dalla presenza di un corso d’acqua di colore giallastro. Dopo il ponte che sovrasta il piccolo fiume Titire ci sorprende la vista di 3 geyser che fuoriescono da una roccia, formando un triangolo d’acqua termale che scende a valle. Ci troviamo nell’area termale di Puerte Bello.
In prossimità di Puno veniamo attratti dalla vista del lago navigabile più alto al mondo: il Lago Titicaca, situato alla quota di 3812 metri sul mare, dove ogni cosa appare piccola e insignificante dato che il paesaggio è rubato da questa enorme distesa d’acqua che riflette il cielo; le nuvole sembrano correre sullo specchio d’acqua contenuto dalle immense montagne della Cordillera Real. Il termine Titicaca significa roccia del puma, perché secondo le popolazioni indigene il lago ha la forma di un puma che caccia un coniglio.
Nel lago vi sono 34 isole grandi e piccole, abitate da etnie Quechua e Aymara. È possibile dormire nelle case delle famiglie disponibili ad ospitare turisti. I turisti devono adattarsi subito ai ritmi del sole, quindi sveglia di buon mattino e a letto quando fa buio nel tardo pomeriggio, in camere senza riscaldamento con un piatto di papas, formaggio di capra e infuso di munja selvatica. Sicuramente questo è il modo migliore per entrare in contatto con questa terra e la sua gente, ma per organizzare il tutto servono 3 giorni e siamo costretti a rimandare.
Soggiorniamo davanti all’isola Esteves e ben presto ci accorgiamo che l’hotel è frequentato da europei che, incuranti del fatto che stiamo scaricando i bagagli, ci chiedono di scattare loro delle foto affianco alla moto. La sera conosciamo un gruppo di italiani che abitano nella nostra provincia e si trovano lì per un trekking sulle Ande. Sono tutti sopresi dalla nostra presenza in sella ad una moto in quel luogo e, essendo loro stessi dei motociclisti, ci fanno la solita lista interminabile di domande scontate e banali tipo: Non è pericoloso? Come fate per il freddo? E se si rompe la moto?…
Il giorno seguente ci dirigiamo al porto di Puno dove acquistiamo il biglietto del traghetto che ci accompagnerà a visitare l’isola fluttuante di Urus e l’isola di Taquile. Partiamo in orario attraversando i canneti che si trovano in prossimità delle sponde del lago, fornendo protezione ai nidi delle numerose oche. Ci dirigiamo verso Urus, dove veniamo accolti dal capo villaggio e un gruppo di famiglie che impreparati corrono a destra e a sinistra per sistemare il piccolo spiazzo che ci accoglierà sull’isola. Ci sono donne e bambini, ma di uomini neanche l’ombra. Solo poi comprenderemo che gli uomini sono impegnati nella raccolta di grandi blocchi di terra che servono alla manutenzione delle grandi isole, chiamate fluttuanti proprio perché possono salire e scendere seguendo il livello del lago ed essere spostate come fossero grandi chiatte.
I nostri piedi sprofondano sulle canne di totora piegate e intrecciate fra loro per costituiscono un piano asciutto e pulito ma danno l’evidente impressione di galleggiare sull’acqua. Il capo villaggio ci accoglie con il tipico benvenuto e ci intrattiene raccontando le origini di quest’isola, nata per proteggere la gente del posto dagli attacchi bellicosi degli Inca che miravano alla conquista delle sponde del lago. Poi ci spiega l’organizzazione gerarchica dell’isola e i compiti di ogni abitante. Tutta la presentazione ha un prevedibile fine commerciale, che si conclude con la proposta di acquisto dell’artigianato locale. Preferiamo proseguire il viaggio su una tipica Reed Boat, barca tradizionale trainata sul fianco da un motoscafo, dove una ragazza si raccoglie i capelli annodandoli in una lunga treccia bagnata dalle acque del lago.
Una lunga traversata ci separa dall’isola di Taquile, dove il turismo è strettamente controllato dagli anziani dell’isola col fine di mantenere la cultura della stessa. Per raggiungere il paese occorre affrontare 500 scalini. Certo gli oltre 3800 metri di quota non aiutano la salita, ma l’accoglienza e la gente del posto allietano la passeggiata, ammiriamo l’artigianato locale e le coltivazioni di patate, quinoa, fagioli e mais. Incuriosisce che tutti gli uomini e le donne indossino gli abiti tradizionali: gli uomini sposati portano un cappello rosso, quello dei celibi è rosso e bianco; le donne portano gonne multistrato e camicie ricamate.
Attorno alla grande piazza del paesetroviamo numerosi ristorantini e negozi, ma ciò che la fa da padrone è la meravigliosa vista sul lago con la vista in lontananza di un grande vulcano innevato. Nei ristoranti del paese si mangia la sopa (zuppa) casalinga e la trota del lago appena pescata, una vera delizia. Qui si respira aria di assoluta tranquillità, tanto che gli stessi proprietari delle bancarelle a volte dormono seduti con i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani che sostengono la testa. Notiamo che il conducente del traghetto utilizza come merce di scambio delle foglie di coca che conserva in un sacchettino legato alla vita. Dopo pranzo proseguiamo la passeggiata scendendo dall’altra sponda della collina e risalendo sul traghetto che ci ricondurrà a Puno in tarda serata.
Il Salar de Uyuni in Bolivia
Il giorno seguente ci rimettiamo in strada di buon mattino, scelta azzeccata per la lunga strada da percorrere, un po’ meno per il freddo pungente. Andiamo dritti verso la Bolivia senza accorgerci dell’indicazione per la dogana peruviana e, dopo qualche centinaio di metri, siamo costretti a tornare indietro. Le pratiche sono veloci e molto simili a quelle del confine con il Cile. Sorprende la fila interminabile di TIR che attendono il permesso di proseguire. Costeggiamo il lago Titicaca per qualche decina di chilometri, poi ci faranno compagnia solo lunghe distese di praterie e qualche piccolo agglomerato di case, vicino alle quali pascolano maiali di piccole dimensioni che inizialmente avevamo scambiato per cani.
Arrivati a La Paz siamo costretti ad entrare in città per cambiare un po’di soldi e per fare il pieno di benzina alla moto. Ci rendiamo subito conto di non aver fatto una buona scelta ad entrare in città: ci sono numerosi semafori che spesso non superiamo neanche con il colore verde a causa dell’intenso traffico. Centinaia di pulmini suonano il clacson, tutti vogliono passare, tutti chiedono di rimettersi in marcia o di fermarsi da un lato. Nella confusione veniamo tamponati, per fortuna senza conseguenze dato che avevamo freni e cambio a riposo e nessuno davanti.
Ciò che ci complisce di La Paz (oltre al traffico disordinato, i clacson continuamente azionati, la presenza di vigili impotenti al centro della strada che cercano di ricondurre il traffico impazzito e confuso alla normalità con il solo uso di un fischietto) è la presenza di numerosissime tende lungo la strada che occupano tutti i marciapiedi e ospitano immigrati da Paesi vicini in cerca di una vita migliore.
Superato il caos di questa metropoli, proseguiamo verso Coroico per poi imboccare la Carretera de la Muerte o Yungas Road, trovata con semplicità nonostante temevamo di non trovarne l’accesso. Si tratta di una strada in parte asfaltata e per buona parte sterrata e senza parapetto, che corre da La Cumbre a Coroico. Visibili lungo la strada alcune croci, quasi a ricordare la pericolosità di quel luogo. Incrociamo alcuni ciclisti e un pick-up che ci fa segno di fermarci. Il conducente ci dice che la strada è chiusa per uno smottamento, che verrà rimosso solo nell’arco di qualche ora. Visto l’orario e la prenotazione dell’hotel fatta a Coroico, decidiamo di fare ritorno alla strada asfaltata per giungere all’hotel solo in tarda serata. L’indomani le scarse informazioni raccolte dal proprietario dell’hotel unite a quelle di una agenzia che organizza la giornata in sella alle mountainbike ci costringono a fare ritorno a La Paz su asfalto per poi proseguire verso Uyuni.
Nella regione di Oruro troviamo un asfalto liscio e deformato dal transito di grandi camion e corriere a due piani. Il paesaggio piatto è estremamente noioso, costituito da grandi praterie deserte, abitato da pochi alpaca che spaventati che si allontanano quando ci fermiamo per fare loro qualche foto. Nella regione di Potosí la desolazione fa spazio alla sabbia solcata da alcuni poveri corsi d’acqua, ristoro per piccoli greggi di alpaca condotti da pastori solitari con la pelle di colore marrone, segnata dal vento e dal sole.
Il modo più rapido per raggiungere il monumento Dakar Bolivia dalla strada asfaltata è prendere una deviazione al paese di Colchani. Arrivati al paese, con la moto ancora carica, deviamo verso destra puntando una carovana di fuoristrada che sfrecciano leggeri sulla sabbia di una pista poco battuta. Riusciamo a non insabbiarci, ma proseguiamo lentamente finché la pista si trasforma in terra battuta e possiamo aumentare la velocità. Superiamo una collinetta che ci fa guadagnare la pista principale, inizialmente in buono stato, ma che poi si intervalla a pozzanghere profonde e piene d’acqua e sale, che spesso ci costringono a brusche deviazioni e frenate.
Quando finalmente la concentrazione nella guida viene ridotta dal miglioramento dello stato della pista ci accorgiamo che davanti a noi c’è Lui… siamo increduli, emozionati, ma siamo arrivati al Salar de Uyuni! È davvero commovente, ma non possiamo lasciarci trascinare dall’emozione perché bisogna rimanere concentrati nella guida perché. Lo strato di sale rende la superfice scivolosa ma non impedisce di accelerare, rendendo gli avvallamenti di sale sempre meno percettibili quasi come ci trovassimo a viaggiare su una nuvola: FANTASTICO.
Percorsi alcuni chilometri sul lago salato, ci fermiamo ad osservare questa meraviglia che acceca e riflette il sole tiepido, un vento leggero ci accarezza la pelle, raffreddandola e ricordandoci i 6°C di questa giornata. Sarà difficile togliere il casco, ma le foto in questo luogo sono la coronazione di un grande sogno, il risultato di tanti sacrifici. Risaliamo in sella per raggiungere il monumento di Dakar Bolivia. È una giornata strepitosa, la ricorderò per tutta la vita. Nessuna parola può descrivere l’emozione di trovarsi qui, davanti a questo monumento, in un luogo così magico, per non parlare della Plaza de Las Banderas Uyuni che si trova a qualche centinaio di metri dal monumento e che ospita numerose bandiere di varie dimensioni provenienti da tutto il mondo.
Nel frattempo le luci della moto iniziano a riflettersi sul fondo bianco del lago, segno che ormai si fa sera e quindi dobbiamo dirigerci verso Uyuni dove trascorreremo la notte. Nel frattempo il tramonto che si trova dietro di noi ci costringe a fermarci più volte per scattare delle foto meravigliose. Raggiungiamo la città sul lago salato rincorrendo i numerosi fuoristrada che rientrano in città per decine di chilometri. Una volta raggiunta, ci rendiamo conto che le guide non esagerano a indicare la città di Uyuni come uno sparuto gruppo di case tra strade sabbiose, incapace di offrire molta ospitalità al viaggiatore venuto da lontano a visitare il grande lago salato.
Il giorno seguente decidiamo di visitare il lago salato a bordo di un fuoristrada. Il tour ci terrà occupati per tutto il giorno, visitiamo il cimitero dei treni, torniamo al monumento alla Dakar e la Isla Incahuasi, uno sperone collinare roccioso e coperto di cactus che si erge sulla pianura di sale, permettendo di godere della vista di questi 10582 chilometri quadrati di bianco. L’isola Incahuasi ha svariati nomi, tra i quali Inka Wasi (terra Inca), o isola del Pescado per via della sua forma. Concludiamo la giornata in bellezza, ammirando il trasmonto riflettersi nelle limpide acque di questo lago, sorseggiando del buon bicchiere di buon vino boliviano.
L’indomani partiamo verso il confine argentino, dopo circa 200 km ci troviamo a percorrere una strada tra canyon e gole in una cornice racchiusa tra montagne stratificate di vario colore. Prendiamo una pista che ci fa scendere in un canalone dove le montagne ci sovrastano e i cactus delimitano il tratto di strada ghiaioso, quando ci accorgiamo di trovarci nel letto di un fiume ridotto ad un piccolo filo d’acqua, che crea sulla strada pozzanghere che proseguendo crescono di dimensione e profondità. La pista non è segnata sul nostro navigatore, ma la città sembra vicina e quindi decidiamo di proseguire.
Ci accordiamo di essere preceduti da un’auto che seguiamo fino a quando la strada termina davanti al cancello di una residenza privata. Nel valutare cosa fare, ci rendiamo conto che la strada principale è poco sopra di noi; riusciamo raggiungerla superando un dirupo alto qualche metro. Raggiunta la strada ghiaiosa notiamo un camion cisterna che ignoriamo. Proseguendo il colore della strada cambia diventando sempre più scuro, le ruote tendono a scivolare, quasi fossero bucate. Ci fermiamo con cautela, scoprendo che il suolo è molto scivoloso. Alice scende dalla moto e subito mi dice di uscire da quel tratto di strada perché la moto è coperta di catrame.
Consultiamo la cartina, sembra proprio che per raggiungere il prossimo paese dovremo percorrerla tutta. Procedendo con cautela raggiungiamo la fine di quello che doveva essere un tratto di strada in manutenzione: 3 grandi mucchi di terra posti al centro della carreggiata bloccano l’accesso. Rimuovendo grossi massi riusciamo a superare l’ostacolo e arrivare in paese nel giro di una manciata di minuti. Ci fermiamo al primo autolavaggio, dove utilizziamo 4 litri di gasolio e molto olio di gomito per togliere il catrame appiccicato dappertutto.
Conosciamo una famiglia di colombiani che con un piccolo van stanno visitando il Sud America. La famiglia è composta da padre, madre e figlia di 10 anni. Facendo amicizia capiamo che sono lì per la rottura di un manicotto del motore. Mi rendo disponibile a recuperargli il pezzo alla prima città, ma a loro non interessa. Hanno davanti altri 10 mesi di viaggio e se il destino li ha fermati lì, un motivo ci sarà, quindi preferiscono fare la nostra conoscenza e scambiare consigli e opinioni di viaggio piuttosto che preoccuparsi di ciò che si può aggiustare. Sarebbe bello viaggiare senza limiti di tempo e denaro. Lavata la moto proseguiamo il viaggio dopo aver salutato i nostri nuovi amici e scambiato i rispettivi profili social.
Arriviamo presto al confine argentino, che superiamo in circa 40 minuti, dirigendoci a La Quiaca, un paese di confine dove trascorreremo la notte passeggiando per le vie del centro in compagnia di musica e bancarelle.
Argentina, Paraguay e Uruguay
Nei giorni successivi visitiamo Salta, nota per la sua architettura coloniale, la cattedrale neobarocca, il Treno delle Nuvole che raggiunge Antofagasta; proseguiamo per Cafayate, noto centro turistico da cui visitiamo la bellissima Valle del Calchaquies. Da qui percorriamo la Ruta 16, una strada monotona e piatta tra le praterie argentine, resa vivace solo per un tratto di 70 km dove sull’asfalto troviamo enormi e profonde buche che a tratti ci obbligano ad uscire dalla carreggiata e viaggiare sulla sabbia. I mezzi che incrociamo viaggiano fuori dalla carreggiata alzando nuvole di polvere che ci investono, riempendoci di sabbia e costringendoci a brusche frenate per la scarsa visibilità. Superato questo lungo tratto siamo pronti ad entrare in Paraguay passando per l’Isla Yacyreta che si raggiunge superando un grande ponte, ma veniamo fermati dai doganieri che ci fanno deviare su Posadas per oltrepassare il confine. Oggi abbiamo percorso 800 km, non sono certo questi 130 km che ci infastidiscono, se non fosse per il fatto che sono le 19.00 ed il tramonto non tarderà a lasciare il posto al buio della notte. Per fortuna la strada è asfaltata e incrociamo qualche auto che con i suoi fari ci aiuta a percorrere questa strada così buia, pensando costantemente agli animali liberi che incrociamo lungo la carreggiata durante il giorno.
Superiamo la dogana con un buio pesto, oltrepassiamo il lungo ponte sul fiume Paranà che ci porta agli imponenti e luminosi hotel che popolano la grande spiaggia di Encarnación. Sul Paraguay non abbiamo raccolto informazioni rassicuranti, chi c’è stato lo ha descritto come un Paese in cui la polizia effettua numerosi controlli, costringendo a lunghe soste ingiustificate. I consigli sono importanti, ma abbiamo appreso che dipendono molto dall’esperienza di chi lo racconta e da quanto si senta figo… negli anni abbiamo deciso di fregarcene. In questi 3 giorni nessuno ci ha fermati, anzi! Ad un semaforo superato distrattamente con il rosso, siamo stati raggiunti da un poliziotto motociclista che affiancandosi ci ha consigliato di stare più attenti.
Uscendo dalla città di Encarnación notiamo che le strade corrono tra le palme e sono ben tenute, con un traffico regolare. Tutto troppo noioso per noi, decidiamo quindi di compiere una deviazione non programmata verso la città Tebicuary-mí per andare a visitare il Salto Cristal, una delle attrazioni di questo paese. Si tratta di una cascata raggiungibile lungo una strada sterrata scarsamente segnalata, non frequentata e piena di strade che deviano a destra e sinistra, che non lasciano possibilità d’errore. Per accedere all’area che ci condurrà al Salto Cristal occorre pagare un compenso per niente economico al contadino proprietario di questa terra, che oltre alle colture allevan galline e maiali che corrono composti davanti a noi. Raggiunto un piccolo prato ci dobbiamo fermare perché l’area davanti a noi è transennata. Parcheggiamo la moto e ci incamminiamo lungo il sentiero per circa 3 km, tra rocce e pendii, oltrepassando ruscelli lungo i quali uccelli neri di grandi dimensioni (abbiamo poi scoperto essere Urubù) ci osservano per niente impauriti, quasi a volerci sfidare nel loro habitat. I ruscelli che si trovano lungo il cammino impediscono di comprendere la vicinanza della cascata, che compare solo quando, ormai esausti, avevamo perso le speranze di vederla. Appare subito una cascata alta ma semplice, con un laghetto dalle acque limpide e fredde ai suoi piedi, visibile solo grazie ad una sottile luce che traspare dalla folta vegetazione che la circonda.
Per raggiungere Asunción basterebbe ripercorrere la strada dell’andata al contrario e imboccare la gran ruote, ma decidiamo di chiedere al contadino di indicarci un itinerario di strade sterrate che passano per i villaggi dell’entroterra in direzione della capitale. Nel percorrere queste piste incrociamo solo qualche motorino e un grosso camion, che non riusciamo a superare: inizialmente la strada è stretta, ma poi la vegetazione è così fitta e bassa che il grosso camion spezza i rami delle piante facendoli immancabilmente cadere sulla carreggiata, costringendoci a continui slalom. Decidiamo quindi di fermarci. La gente che incrociamo ci sorride e ci saluta, i bambini ci rincorrono con grida di gioia. Le case sono fatte di paglia con il tetto in lamiera, la gente rimane seduta davanti all’uscio chiacchierando con i famigliari in compagnia della immancabile musica latino-americana. La gente vive in un questo ambiente che trasuda di genuinità, di valori semplici come la famiglia, di attaccamento alla terra, di natura pura ed esuberante, tra strade a tratti impercorribili per il fango, torrenti che se ne infischiano del fatto che quella è una strada, di ponti tappezzati di tavole fissate una sull’altra e che anche oggi sopporteranno il peso di un altro mezzo che le sovrasta. Questo era ciò che cercavamo e questo è il meglio che questa terra ci ha regalato.
Le piste di terra rossa proseguono fino a una cinquantina di chilometri dalla capitale, dove arriveremo poche ore prima della partenza del volo di Alice. Oggi non è stato un giorno di viaggio come gli altri. Ogni volta che i miei occhi incrociavano quelli di Alice, cascavamo in un vortice di silenzio e tristezza, perché da stasera proseguirò questo viaggio solo in quanto Alice deve rientrare a lavoro. Separarci è sempre molto difficile.
Le piste del Paraguay mi sono piaciute così tanto che le ho percorse anche il giorno successivo, dirigendomi verso Nord per poi, piano piano, riprendere la strada che mi condurrà nuovamente al confine Argentino. Ad un tratto incontro un motociclista che in compagnia di sua moglie sta smontando la camera d’aria della ruota anteriore. Mi fermo per aiutarlo e, contrariamente a ciò che mi aspettavo, il motociclista non ha con sè alcun attrezzo per la riparazione. Fortunatamente porto con me delle camere d’aria con relativo materiale di riparazione, che mi servono solo nel caso in cui dovessi strappare un tubeless. Ripariamo la foratura in una quindicina di minuti, ma quando arriva il momento di gonfiare il copertone, ci accorgiamo che la sua pompa a mano ha il beccuccio troppo grande. Per fortuna con un po’ di nastro americano avvolto attorno alla valvola della camera d’aria riusciramo a gonfiare il copertone, mentre la moglie del motociclista ci filma con il telefonino ridendo e godendosi la scena di uno sconosciuto (io) che rimprovero il motociclista, mentre sudato aziono la pompa ed il motociclista con le mani tenta con scarsi risultati di trattenere l’aria che fuoriesce dalla valvola.
Il giorno seguente supero il confine paraguayano ed entro in Argentina dirigendomi nel Parco Nazionale Iberà, una delle più vaste aree umide del Sud America. Ho cercato informazioni sul parco con scarsi risultati, mi dirigo inzialmente verso Puerto Valle per poi scendere lungo la dorsale del parco, fino a raggiungere il centro de Interpretation Aguas Brillantes nella Laguna Iberà, dove è possibile accedere al parco ammirando da vicino la flora e la fauna di questo ricco habitat tra cervi, capibara, caimani e uccelli di vario genere. C’è la possibilità di fare una gita in motoscafo accompagnati dalle guardie del parco, oppure di camminare su una lunga passerella di legno che permette di vedere da vicino la laguna e la sua natura.
Il mio viaggio prosegue verso Concordia, dove varco il confine con l’Uruguay passando sulla diga di Salto Grande e da qui proseguo sulla Ruta 26: una strada che corre in collina molto dissestata piena di ranch e grandi appezzamenti di terra recintati. Incontro struzzi liberi e uomini a cavallo che portano le mandrie al pascolo. Incuriosito dalla bellezza di questi luoghi, entro in un ranch e percorro la pista che attraversa la grande prateria, facendo scappare i cavalli fino a raggiungere la fattoria; qui incontro due uomini a cavallo a cui chiedo informazioni, fingendo di essermi perso. Mi invitano a bere del vino con loro, ma spiego loro che quando guido non bevo alcolici… e come fossimo vecchi amici mi raccontano della loro famiglia, spiegano che loro lavorano nel ranch e tornano a casa una volta ogni due settimane, alternandosi la presenza al ranch. Il proprietario possiede anche altre proprietà nella zona, tramandate di padre in figlio.
Riprendendo la strada vedo una scena bellissima: due mamme in sella al cavallo, con i propri figli aggrappati, che con le cartelle a tracolla colorate raccontano di come sia andata la giornata a scuola.
Quando mancano circa 150 km dalla costa, incrocio un motociclista brasiliano con il quale mi fermo a fare conoscenza. Mi invita a seguirlo percorrendo la Ruta 14 che corre in una laguna sul Camino del Indio. La strada, subito sterrata e polverosa per l’intenso traffico, migliora con i chilometri fino a divenire poco trafficata, per poi migliorare decisamente attraversando una laguna fantastica con acqua da entrambi i lati, ricca di mangrovie e gruppi di fenicotteri. Arrivati a Chuy saluto il motociclista brasiliano che prosegue verso nord, mentre io mi dirigo verso Punta del Diablo, incuriosito dal nome del paese, dove trascorro la notte.
Il giorno seguente attraverso la Laguna di Rocha, che unisce Paloma a Santa Isabel. La vicinanza alla spiaggia mi fa intuire che ci possa essere della sabbia sulla pista, che non tarda a fare la sua comparsa. La laguna è bellissima e desolata. Solo arrivando nei pressi di Santa Isabel incontro alcune persone. Il viaggio si concluderà a Montevideo, dopo essere transitato a Punta del Este dove la statua sulla spiaggia mostra le 5 dita di una mano, simbolo di questa città dal carattere e dalla dote puramente turistica.
Soddisfatti da questo viaggio che ha distinto questa prima tappa in America, non possiamo che attendere che arrivi presto Dicembre per riprendere la strada verso Sud.
Buona strada